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Pellegrini: “Io, il calcio, la Roma: la vita che desideravo fin da bambino. Totti? Come in un film”

“La prima volta allo Stadio? In curva con mio papà, avevo 5 anni”

Lorenzo Pellegrini è stato intervistato dalla Gazzetta Dello Sport. Ecco le sue parole:

Come comincia l’amore per il calcio?
Da mio padre. Lui ha sempre avuto una passione incredibile e me l’ha trasmessa. Passavo le ore con lui a giocare in giardino a “passaggi e tiri in porta”.

Si ricorda la prima volta che è andato allo stadio?
Sì, fu in curva, con papà. Avrò avuto cinque anni, non di più. Mi ha raccontato che mi misi seduto serio e composto e seguii tutta la partita senza dire una parola, lui rimase sbalordito.

Come cominciò a giocare davvero?
Alla scuola di calcio della Banca d’Italia, poi passai all’Almas dove mio padre aveva responsabilità tecniche e dirigenziali. Avevo otto anni o poco più, mi vede Stefano Palmieri della Roma. Mi chiamò per un provino, mi sembrava di toccare il cielo con un dito.

Come seppe di avercela fatta?
Mi ricordo quando arrivò a casa la lettera che diceva che la Roma mi avrebbe preso. Per due o tre giorni non feci altro che guardarla, non mi sembrava vera. Può immaginare che cosa significhi a nove anni, per un bambino malato di calcio, sapere che la tua squadra del cuore ti prende nel suo seno. Ero rapito da quel sogno che si realizzava.

La prima volta in sede come fu?
Mi portarono i miei, firmai con la mia calligrafia incerta da bambino. Incontrai Bruno Conti, persona alla quale sono sempre restato legato. Da allora, fino a che non ho preso la patente, mio padre e mia madre mi hanno sempre accompagnato all’allenamento. Noi ragazzini entravamo dal “terzo cancello”, quello delle giovanili. Non avrei mai immaginato di varcare il primo, quello della prima squadra. Ci penso ogni mattina e ripenso alla fatica e al sacrificio dei miei.

Totti era il suo idolo, ricorda quando lo ha incontrato la prima volta?
La prima volta che ci ho parlato è quando con la Primavera ci allenammo con la prima squadra. Da ragazzino ci parlavo tantissimo, dentro di me, lui non lo sapeva. Era un dialogo a senso unico.

Ha sempre giocato a centrocampo?
No, fino ai dieci anni mi schieravano attaccante, ero alto e grosso. Poi sono cresciuti anche gli altri e furono momenti duri, facevo fatica a trovare il mio posto in squadra. L’allenatore che avevo allora mi disse che per farmi giocare mi avrebbe spostato a centrocampo. Accettai subito, avrei giocato ovunque. Vincenzo Montella mi ha insegnato tanto, anche tatticamente. Furono preziosi i consigli del suo vice, Daniele Russo, che era stato centrocampista.

Poi lei ebbe una malattia seria.
Sì, era la conseguenza infettiva di una mononucleosi che avevo contratto nello spogliatoio. Malattia asintomatica che produsse una serie di anomalie nel funzionamento del cuore. Degli scompensi, che il mio cuore compensava accelerando i battiti. Ogni piccolo sforzo mi produceva un affanno terribile, decisero un piccolo stop di sei mesi. Dopo quattro mesi facemmo un controllo, l’esito era positivo e rientrai in campo dopo poco.

Ebbe paura, in quei giorni?
No, non ho mai avuto paura che il mio sogno finisse. Mi ripetevo che mi stavo solo riposando, per tornare più forte, con più voglia. E alla fine è stato così.

Cosa significa essere romani nella Roma?
E’ una responsabilità importante. Ti senti in dovere di fare felice la tua gente. So quanto conti da come il calcio è vissuto dalla mia famiglia, lo so da mio padre. Per fortuna per papà conto più io. Almeno un po’ più della Roma…

Che tipo di responsabilità è?
Quella che sento tanto è trasmettere ai miei compagni cosa vuol dire stare qui. Si può vincere o perdere, ma devi uscire dal campo senza rimpianti.

Perché è così difficile vincere a Roma?
Vincere è difficile dappertutto. L’unica cosa che si può fare per vincere è lavorare, essere seri, professionali e creare un clima positivo tanto forte da resistere alle pressioni esterne. La Roma oggi sta crescendo anche in questo.

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