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Ho cenato con Mario Sconcerti. Grazie “Direttore”

Grazie Direttore per quello che hai scelto di condividere con noi

Che peso possiamo dare ad una cena? La semplice condivisione della tavola, la chiacchierata che ne deriva, la quantità di aneddoti e ricordi scambiati. A Roma conta, a volte sposta anche, viene preso come metro di giudizio. Tant’è che si è soliti dire: “Ma io e te abbiamo mai mangiato insieme?”. Come a voler indicare un grado di confidenza non ancora raggiunto. Ecco, io ho cenato con Mario Sconcerti.

E quando dico “cenato” non sto parlando del concetto fisico di sedere uno vicino all’altro, intenti nel divorare il pasto scelto, con gli occhi fissi sul piatto. No, io ho cenato con Mario Sconcerti, in una di quelle cene dove il cibo passa in secondo piano, in cui il vino (bianco, gelato e secco) fa da sfondo e intervalla il ritmo dei racconti. Abbiamo cenato prima di mangiare, mentre mangiavamo e anche dopo, soprattutto dopo, quando la tavola era ormai vuota e i calici contenevano pochissime gocce.
Diedi una stretta di mano vigorosa alla voce che ogni giorno, alle 18, mi aveva preso per mano e portato a vedere le cose sempre sotto un altro punto di vista. “Ce l’ha con la Roma” mi scrivevano in tanti nei messaggi privati che ricevevo sui social. E io rispondevo sempre: “E se avesse ragione lui? E se il suo punto di vista fosse più lucido, oggettivo, competente del nostro, spesso troppo condizionato”.

Il Direttore (mai chiamato in nessun altro modo da quando ho avuto la fortuna di confrontarmi con lui) ha fatto qualcosa che per me ha un valore enorme: mi ha dedicato del tempo. Ha letto diversi articoli, ha visto le mie debolezze, le mie mancanze e me le ha messe sul tavolo. “Andrea, tu scrivi bene, non c’è dubbio, ma cosa vuoi fare? Devi capire cosa vuoi raccontare. Ricordati che sei come l’inviato che sta a Kabul, fammi capire che succede, racconta quello che vedi”. L’aneddoto che tirò fuori per spiegarmi cosa intendesse lo tengo per me, tira in ballo altri colleghi, un episodio di una vita fa, quando il mestiere era raccontare. Solo quello. L’inviato non aveva Twitter, la fotocamera, l’immediatezza, un cellulare a portata di mano. C’era una macchina da scrivere, il potere della parola e la capacità di catapultare il lettore al Maracanà, al Madison Square Garden o all’Olimpico.  Nessuno poteva sostituire la magia del racconto su carta stampata. E per questo aveva un peso che forse ora, in parte, ha perso.

Il Direttore se la prendeva con i Friedkin perché “non volevano raccontare la Roma” o permettere a noi cronisti di raccontarla, nei suoi pregi e nei suoi difetti. Era un aspetto che proprio non gli andava giu. Nel corso della sua carriera aveva sempre chiesto ai suoi cronisti di raccontare storie, notizie, di abbattere qualsiasi ostacolo tra la penna e la verità.
E ogni giorno in radio ha provato sempre a stimolarci, a non accontentarci della verità di comodo, delle notizie filtrate. Raccontava la sua professione con una naturalezza che appariva fuori contesto, in un mondo, quello del giornalismo, oramai divorato dalla corsa sul tempo nell’arrivare primi sulla notizia.

È stato un privilegio Direttore, davvero. Anche nei giorni in cui non ho condiviso la sua opinione o colto sfumature e orizzonti di alcuni suoi punti di vista.
Mi tengo stretti i consigli, i complimenti ma soprattutto quella cena, noi intorno a lei ad ascoltare, con un calice di vino in mano. Perché quello è il significato più puro di cenare con una persona: condividere.
Grazie per averlo fatto con noi, con me.

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