C’era una volta un capitano, un romanista doc come Di Bartolomei, Giannini e Totti. Dopo l’incertezza di Florenzi, sembrava che la storia stesse per rinascere con la promozione di Lorenzo Pellegrini, il numero sette trasformato in poesia da Francesco De Gregori.
Una storia che ha attraversato le giovanili, un prestito al Sassuolo per testare le sue abilità, la chiamata in Nazionale, il ritorno a casa, i successi in campo, un gol di tacco in un derby memorabile, la fascia di capitano e l’ammirazione di un signore di Setubal, Mourinho, che ha dichiarato: “Se avessi tre Pellegrini, giocherebbero tutti e tre”.
Ma le cose non sono più così. L’ultimo capitolo, giovedì sera, durante la partita inutile contro gli avversari dello Sheriff, ha visto il 7 giallorosso trascorrere l’intera partita in panchina. Forse una mossa strategica per risparmiarlo in vista della sfida con il Bologna, ma il fatto è che ha assistito dalla panchina all’esordio di Pisilli e Mannini, due nuovi nomi che si uniscono alla lista dei possibili eredi. Vedere Pellegrini in panchina ha suscitato un certo senso di malinconia, alleviato solo dalla consapevolezza che non avrebbe sentito i fischi dei tifosi, riservatigli durante la sua ultima apparizione casalinga.
Questi fischi hanno segnato la fine di una favola in cui non tutti hanno vissuto felici e contenti, una conseguenza di un periodo prolungato in cui il capitano, tra infortuni e difficoltà, ha faticato a mantenere gli standard che lo avevano certificato come un giocatore di qualità sopra la media. Lo scrive la Repubblica.