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Lanzaro: “La Roma mi è rimasta nel cuore”

L’ultima volta che la Roma vinse in Germania una gara europea c’era anche lui in campo

Ad Amburgo, il 7 dicembre 2000. Diciannove anni fa. I giallorossi – per l’occasione in maglia blu – passeggiano sulla formazione che un tempo era stata quella gloriosa di Felix Magath. È la Roma di Capello, che qualche mese dopo si sarebbe laureata campione d’Italia. C’era anche Maurizio Lanzaro in quel gruppo vincente. C’era in quella fredda serata tedesca, ma fu l’ultima presenza da romanista. Già, perché Maurizio, difensore classe 1982, dopo quell’apparizione andò in prestito al Verona nel mercato di gennaio. Ad Amburgo, subentrò a quattro minuti dalla fine ad Aldair, uno dei tre marcatori del match insieme a Samuel e Delvecchio.

Quasi vent’anni dopo, Lanzaro non è più un diciottenne di talento in rampa di lancio. Ha smesso pochi mesi fa con il calcio, decidendo di sedere in panchina e intraprendere questa professione. Allena i ragazzi di due squadre spagnole di dilettanti. Fuori dal campo, Lanzaro è anche papà e si è stabilito in via definitiva in Spagna per ragioni sentimentali. Tanto che il suo accento al telefono è più iberico che avellinese, la sua città natale. “D’altronde, parlando tutti i giorni spagnolo, dovendo comunicare con ragazzi di qui, è normale assorbire completamente questo linguaggio”. Queste le sue dichiarazioni rilasciate all’AS Roma Match Program:

Ricorda quella vittoria in Germania nel 2000?

“Fu una serata perfetta. Vincemmo dominando la partita dall’inizio alla fine. Era una squadra fortissima, la nostra. Io entrai al posto di Aldair nel finale, quando il match era già deciso. Era la mia terza presenza con la Roma, dopo il debutto in campionato a Piacenza e un’apparizione in Coppa Italia l’anno prima con il Cagliari. Fui contento di giocare, merito di Capello che mi teneva in considerazione e mi faceva allenare sempre con la prima squadra. E avrei dovuto ascoltarlo di più”.

A cosa allude?

“A quando andai via, un mesetto dopo quella partita in Germania. Passai al Verona in prestito, sperando di trovare più spazio e di giocare con continuità. Si trattava di una buona opportunità, il Verona era in Serie A, ma le cose non andarono. Capello, pochi giorni prima di partire, mi vide e mi disse: “Dove stai andando, Maurizio? Che fai?”. Un allenatore di quel carisma, con quel curriculum, mi dimostrò stima. Il mister era un sergente di ferro, esigente, ma una persona giusta”.

Non ci ripensò?

“In quel momento no, preferii andare comunque a fare esperienza altrove. E sbagliai, probabilmente. Sarei dovuto essere più riflessivo. Fui anche malconsigliato dai procuratori di allora”.

Sembra rammaricato.

“Ma no, sono soddisfatto della carriera che ho fatto. Ho giocato in Serie A, sono stato all’estero, ho giocato in nazionale fino all’Under 21. Magari avrei potuto trovare più spazio in una squadra di rango più alto come la Roma, non è successo e va bene lo stesso. Ho fatto parte della Reggina di Mazzarri che si salvò nonostante la penalizzazione di 11 punti in classifica”.

Cosa ha rappresentato per lei il periodo nella Capitale?

“Un pezzo di vita importante lungo otto anni. Roma è una seconda casa, la squadra che mi ha permesso di coronare il sogno di diventare calciatore. Sono andato via da Avellino a 12 anni e a Trigoria sono stato allevato giorno dopo giorno, con Bruno Conti che faceva da papà un po’ a tutti noi. A Roma vivono le mie figlie del mio primo matrimonio. Spesso torno per trovarle, ma dovrei farlo più spesso”.

Il 9 maggio 1999 l’esordio in Serie A, con Zeman allenatore, in un Piacenza-Roma.

“Giocai dall’inizio, nel ruolo di terzino destro. La partita non andò bene perché perdemmo 2-0, ma fu un momento cruciale della carriera. Era la prima uscita a livelli professionistici, per uno giovane come me, di 17 anni, significò molto. Uscii dal campo dopo un’ora, ringraziando Zeman. Il boemo fu il primo tecnico a formarmi come calciatore professionista, non lo posso dimenticare. Era un calcio diverso e anche una Roma diversa”.

La segue ancora? Anche se dalla Spagna, a distanza?

“Sempre, quando posso. Ho visto le ultime partite, quella con il Napoli. Come ho già detto, Roma e la Roma mi sono rimaste nel cuore, un posto dentro di me ci sarà sempre, nonostante mi sia allontanato fisicamente”

E com’è la Roma di oggi?

“La Roma di oggi è un gruppo unito, che gioca a calcio, vince e si diverte. Con il Napoli ho visto una prestazione entusiasmante. L’ha fatta contro il Napoli di Ancelotti, contro uno dei migliori allenatori in circolazione. Lui è al top, come pure Simeone. E attenzione a Fonseca…”.

A proposito, si ispira a qualche tecnico in particolare per la sua nuova vita da allenatore?

“Ho citato questi due non a caso, sono quelli che guardo con più attenzione, pur seguendo un percorso personale avendo fatto tesoro di tante esperienze in passato con diversi professionisti. Fonseca pure sta dimostrando di essere un top coach, ma lo aveva già dimostrato in passato vincendo sia in Portogallo, sia in Ucraina con lo Shakhtar Donetsk. Il segreto è farsi seguire dai calciatori, entrare nella loro testa, il resto viene di conseguenza”.

Lo sa che l’ultima volta che l’ultima vittoria romanista in Germania fu proprio con lei in campo, ad Amburgo?

“Non ci avevo pensato, sinceramente. E sono contento di aver fatto parte di quella partita, anche se per pochi minuti. Quella fu una gara senza errori da parte nostra, dove tutto andò per il meglio. Questa Roma di Fonseca ha tutte le carte in regola per ripetere una prestazione di quel tipo e tornare a vincere da quelle parti. Dopo diciannove anni. E sarebbe ora, considerando che all’epoca ero un ragazzo e ora sono un uomo”.

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