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Andreazzoli: “26 maggio? C’erano Totti, De Rossi e Balzaretti: la persero loro”

Aurelio Andreazzoli è tornato a parlare della sua esperienza alla Roma: 26 maggio, Spalletti, Zeman e il rapporto con i tifosi

Aurelio Andreazzoli ha concesso una lunga intervista a Sportweek, in cui si è soffermato anche sui suoi trascorsi alla Roma. Prima collaboratore, poi allenatore. Di seguito le sue parole a tema Roma:

Che mondo le ha fatto conoscere, Spalletti?

Quello della Serie A e di un calcio sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. Luciano è di una curiosità esagerata. Mi chiamò perché io ero più curioso di lui e mi portò a Roma, dove sono rimasto per dodici anni come collaboratore tecnico dei vari allenatori che si sono dati il cambio in panchina.

Ricordiamoli. Dopo Spalletti, Montella.

Curioso, studioso, ambizioso, voglioso di sperimentare, disposto a mettersi in discussione anche accettando incarichi all’estero, cosa che io non farei perché, senza conoscere la lingua, non riuscirei a entrare nella testa dei giocatori. So un po’ di francese, non parlo inglese. Perciò stravedevo per Trapattoni, perché alla sua età accettava sfide in tutta Europa. Io sono un fagiano, un animale stanziale.

Luis Enrique.

Personaggio stratosferico. Uomo tutto di un pezzo, senza compromessi. Con lui non c’è possibilità di negoziazione, e non perché sia chiuso a prescindere, ma perché è serio: se decidiamo tutti insieme che si fa così, poi si fa così, senza scorciatoie o deviazioni. Quando è andato via, ha lasciato sul tavolo un milione e due di contratto. Era pure uno sportivo incredibile: ciclista, maratoneta, ironman perfino.

Zeman.

Con Sacchi, ha inciso nel calcio italiano in maniera profonda e decisiva.

Esonerato lui, ne prende il posto il 2 febbraio 2013.

Con la Roma avevo un contratto quinquennale da collaboratore. Tutto avrei immaginato, tranne che la società mi chiamasse ad allenare la prima squadra. Ma è il mio lavoro ed è quello che voglio fare, perciò dico subito sì. E ho le idee chiarissime sul gruppo di lavoro da formare. Chiamo tutti quelli che a Trigoria fino a quel momento erano rimasti in terza o quarta fila: Franco Chinnici, che faceva recupero infortuni e io promuovo a preparatore atletico; Luca Franceschi, ora con me a Empoli; Roberto Muzzi, che allenava i Giovanissimi e io metto a fare il mio “secondo”… In quattro mesi di campionato facciamo quasi due punti di media, arriviamo davanti alla Lazio partendo da 9 punti di distacco, chiudiamo con la miglior difesa dietro a quella della Juve.

A quel punto si aspetta la riconferma?

No. Sarebbe scattata automatica se non avessi perso la finale di Coppa Italia proprio contro la Lazio, per giunta all’Olimpico. Un mese dopo arriva Garcia e, al via della nuova stagione, la squadra viene presentata allo stadio, entrando in campo sotto la Sud.In ordine alfabetico. Indovina chi è il primo? Doppia “A” iniziale nel nome e nel cognome: non si scappa.

Le vomitano addosso di tutto…

Un po’ di casino lo hanno fatto. Di certo non mi hanno applaudito. Ero quello che aveva perso la Coppa Italia nel derby. Ma dire che l’avevo persa io, significherebbe che l’allenatore è più importante dei giocatori, e non è così. In quella squadra c’erano Totti, De Rossi, Balzaretti: la finale la persero loro. Insomma, con Garcia ritorno al mio vecchio ruolo di allenatore in caso di bisogno. A un certo punto mi stancai di non allenare e dissi: basta, torno a casa e smetto.

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