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Carletto Mazzone, il “magara” re di una Roma mitica

Si è spento a 86 anni Carlo Mazzone

C’è una data che rimarrà per sempre la data della consacrazione di un amore: 27 novembre 1994. In quel pomeriggio brumoso di sole e nuvole, la Roma di Carlo Mazzone, una Roma che, malgrado il talento di Balbo e Fonseca (e di Totti in panchina), sembrava tanto una Rometta riveduta e corretta, teoricamente non all’altezza di misurarsi con la Lazio di Zeman, Signori, Winter e Boksic: ebbene quella Rometta, quella carrozza stravagante, dotata di protocolli tattici elementari, costruita su piccole vedette del calcio come Piacentini, Petruzzi, Moriero, Cappioli, Annoni, Benedetti, Lanna, travolse l’avversaria e si prese il derby (0-3) illuminata da un bagliore che ebbe l’effetto di rendere alcuni dei piedi giallorossi capaci, almeno per un pomeriggio, di eseguire lo spartito alla perfezione. I caporali divennero condottieri. E Mazzone un mito.

Andò tutto bene alla Roma, andò malissimo alla Lazio che sognava in grande e che in effetti giocava un calcio diverso. Ma quella sera Mazzone sembrò valere più di Zeman e l’amore cementò quest’inganno. Che Carlo accettò senza mai dimenticare quale fosse la verità: da un lato la scienza evolutiva, dall’altro il suo sport che si avvicinava più a Rocco che a Sacchi o a Guardiola.

Eppure proprio Guardiola ha continuato per anni ad avere una relazione speciale con Carletto, con il “Magara”. Si erano conosciuti a Brescia, ma il messaggero d’amore, il “go-between” fra di loro, fu comunque Roma, dove Guardiola giocò per un breve periodo sotto Capello e dove persino Mazzone aveva giocato indossando la maglia giallorossa in un breve incontro sentimentale che non portò da nessuna parte (appena due partite nell’anno del signore 1959, contro la Fiorentina e contro quello che allora si chiamava Torino Talamone).

Mazzone se ne è andato ieri a 86 anni nella sua Ascoli. Da anni si era trapiantato nelle Marche, rinunciando per sempre alla Roma calcistica dalla quale aveva ricevuto segnali contrastanti. Si sentì amato ma per un attimo, accolto ma soltanto per una frazione di secondo. Proprio nel momento più bello, ossia in quei fragili istanti in cui le reti di Balbo spinsero la sua Roma a illudere i tifosi, al punto che qualcuno di loro si allargò immaginando destini di gloria, Mazzone continuò, a causa di una congenita forma di coerenza e di istintiva propensione a non illudersi mai, l’impressione di essere semplicemente un intruso.

Così non poté fare altro che allontanarsi, strappandosi di dosso i colori sociali, che pure sentiva suoi. Scappò due volte. Da giocatore per cercare di giocare più di quanto gli stava garantendo una piazza come Roma in un periodo non troppo felice per il club, alla fine degli anni Cinquanta. Da allenatore, in un’altra situazione transitoria, per capire cosa lui avesse veramente da offrire a un mondo che stava cambiando a velocità vorticose, forse troppo (anche se fu lui, prima di Ancelotti, a trasformare Pirlo): cambiavano i sistemi di allenamento, la struttura fisica dei calciatori, i palloni, le tattiche, persino le interviste a fine partita.

Cambiava lo stile del mister, che non era più il rabbioso padre-padrone ma il manager pronto ad affrontare qualunque sfida mediatica. Lui non era così. Lui andava sotto le curve a pugni chiusi. Parlava romanesco, senza filtri, pane al pane, vino al vino. Se voleva spiegarti la sua idea di calcio non faceva tanti giri di parole: “Berretta uno scarso? Come no… giocace contro!!!”. Litigava spesso. Una volta l’avellinese Di Somma gli spense la sigaretta su una guancia: pare che Carlo gli avesse dato del camorrista. Mazzone era questo. Un uomo senza filtri ma con una cicatrice sul viso. L’eroe, quasi involontario, di un passato politically uncorrect. Il suo calcio non apparteneva ai nutrizionisti e agli schizzinosi. Non si escludevano mai una manata in faccia e una carbonara. Però Carlè, potevi avverticce…

– La Repubblica

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