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Mangone: “Mourinho ha carisma, vuole mettere le basi per vincere in futuro”

Amedeo Mangone, difensore campione d’Italia 2001, ha rilasciato un’intervista al sito ufficiale del club, parlando dello Scudetto, di Mourinho e della situazione attuale

Amedeo Mangone, difensore dei giallorossi dal 1999 al 2001, ha rilasciato una lunga intervista al sito ufficiale della Roma. Di seguito le sue parole su Mourinho e sullo storico scudetto del 2001:

Il 17 giugno scorso sono stati 20 anni da quella storica vittoria. Vi siete sentiti tra ex compagni di squadra?

“Sì, ci siamo scritti, abbiamo ricordato quei momenti. Alcuni si sono potuti anche riunire a casa di Candela per una rimpatriata. Non tutti, però. Con le limitazioni, il momento che stiamo vivendo e il fatto che molti fossero stranieri, non è stato possibile presenziare al completo. Ma ci scambiamo messaggi di frequente, abbiamo una chat su Whatsapp, creata da Tommasi quattro o cinque anni fa.

Quali furono i segreti di quel trionfo?

“Ci furono tante componenti che andarono per il verso giusto. L’allenatore, Fabio Capello, riuscì a capitalizzare il lavoro della stagione precedente, mettendo dentro la formazione titolare tre elementi di assoluto valore come Samuel, Emerson e Batistuta. Uno per reparto. E continuò con l’assetto difensivo con tre centrali. La squadra era fortissima. Due fattori furono decisivi”.

Ovvero?

Lo scudetto della Lazio ci portò inevitabilmente a dover competere per forza per le prime tre posizioni. Avevamo i mezzi per farlo, dovevamo farlo. Non ci potevamo nascondere più”.

E l’altro fattore?

“La contestazione che ci fu a Trigoria dopo l’eliminazione in Coppa Italia ad opera dell’Atalanta. Specifichiamo, certe manifestazioni non dovrebbero mai esserci, soprattutto se superano i limiti della civiltà, ma lì capimmo cosa volevamo e che era tornato il momento di vincere qualcosa di importante. Lo scudetto dopo 18 anni. Mi auguro che la Roma possa tornare presto ad ottenere vittorie di questo tipo”.

Il Club e un tecnico come Mourinho stanno lavorando in questo senso.

“Vero. Il nuovo proprietario sembra una persona molto quadrata, con idee chiare. Il tecnico portoghese lo conosciamo bene tutti. Ha carisma, storia, vuole mettere le basi per vincere in futuro. Ha detto a più riprese che serve tempo per arrivare a certi livelli e ha ragione. Ma sta dimostrando da subito di essersi calato perfettamente in una realtà come quella di Roma. Sta facendo cose buone, anche dal punto di vista tattico. Il cambio di sistema di gioco, passando a tre dietro, è un segno di intelligenza per mettere nelle migliori condizioni i calciatori”.

È vero ciò che si leggeva sulle cronache dell’epoca? Se non fosse arrivato lei, al suo posto sarebbe stato ingaggiato il ventunenne Rio Ferdinand del West Ham?

“Sì, assolutamente, confermo. Me lo disse anche il presidente Franco Sensi quando ci parlai al telefono per definire la trattativa. Inizia tutto dal Bologna. La società quell’anno mi offrì un contratto pluriennale per finire la carriera in rossoblù. Poi, ad un certo punto, arrivò la proposta della Roma che cambiò i piani di tutti. Capello voleva un centrale affidabile per completare il reparto. Il Bologna ne prese atto, io sentii al telefono i dirigenti Franco Baldini e Fabrizio Lucchesi, ma per la definizione dell’affare mi chiamò Sensi in persona. E questa cosa mi fece effetto. In positivo, ovviamente. Il presidente mi disse di decidere in poco tempo, altrimenti – testuale – “prendo Rio Ferdinand per il quale ho un’opzione che mi scade tra pochi giorni”. Io dissi di sì alla Roma senza pensarci molto. L’opzione per l’inglese scadde, anche perché all’epoca Ferdinand era giovane, non ancora il centrale fortissimo che avremmo visto anni dopo allo United”.

Cosa ha rappresentato per lei giocare nella Roma?

“Tantissimo, tutto. A Roma, nella Roma, ti rendi conto cosa significa fare il calciatore. Ti fa sentire importante. Soprattutto dopo le vittorie”.

Resta agli atti, però. Lei oggi è allenatore. Come procede la sua attività?

“Sì, preparo dei ragazzi e mi piace. In passato ho guidato diverse squadre, anche in Brasile. Prima del lockdown ho dato una mano al Brera, cercando di mettere su una squadra con ragazzi extracomunitari, profughi, un’attività sociale. Avevamo fatto qualche partita, poi c’è stato il primo lockdown che ha fermato tutto. Vediamo in futuro cosa accadrà.  A settembre-ottobre sono stato due mesi in Africa a vedere calcio africano. Mi sono divertito. In Sudafrica, Zambia, Kenya, c’è tanto materiale su cui lavorare”.

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