Una metamorfosi condotta da Mourinho
Lo scorso 4 maggio quando con un doppio tweet la Roma ha annunciato l’addio a Paulo Fonseca e l’arrivo di José Mourinho, il cuore del tifo giallorosso si è impennato. Bastava il nome: José, lo Special-one. Dall’idea e dalla semplice speranza, quasi quattro mesi dopo, siamo ai primi fatti: in poco tempo Mourinho ha cancellato i due anni tristi di Paulo Fonseca. Sfortunato, Paulo. Fortunato l’altro portoghese, e anche questo è un merito, per forza.
A Mourinho, che oggi a Salerno gioca la sua prima gara di campionato in trasferta, sono bastate tre vittorie – con Trabzonspor e Fiorentina – per tenere sempre impennati quei cuori. Mou non ne parla, anzi estrae l’arma della dialettica spostando l’attenzione e, quando gli chiedono se la partenza di Cristiano Ronaldo sposterà gli equilibri in chiave scudetto, lui fa il diplomatico: “Chiedete a Simone Inzaghi, non a me…”.
La Roma non è da scudetto, questo lo sa e lo ha spesso ribadito, perché “manca qualcosa”, e il mercato non è finito. Ma José sa pure che la sua squadra si può infilare in quel discorso e la gente ci crede e questo sogna, grazie a lui. Ci crede e sogna perché guarda le partite e si accorge che l’atmosfera è cambiata ed è bastato poco, l’impronta dello Special è evidente, tutto è trascinato, per ora, dal suo carisma.
C’è una squadra con una propria identità, con un tecnico sincero, che se deve dire che Villar e Diawara sono sul mercato, lo dice: se deve rilanciare Pellegrini, lo fa senza mezzi termini; se deve dire – come ieri – che Mayoral merita di giocare e che spera possa restare, lo dice. Come non si nasconde quando deve mettere in cattiva luce calciatori come Fazio, Pastore, Nzonzi – “liberi di fare quello che vogliono come noi siamo liberi di prendere le nostre decisioni“. Insomma, lo zero a zero non è un risultato che percepisce.
Oggi sarà la sua novecentonovantanovesima partita da professionista, dopo la sosta arriverà la numero mille contro il Sassuolo, che quando era all’Inter non stava nemmeno in serie a. Le premesse dicono che la Roma deve credere di poter fare il salto in alto, di stare lì, aspettando che qualcosa possa succedere. Il pubblico gli sta dando una mano, disegnando di giallo e di rosso questo entusiasmo rinato quel 4 maggio, come un fulmine. Lo scrive “Il Messaggero”.