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Lucho il duro e puro: dalle tragedie ai trionfi senza mezze misure

Aveva detto da allenatore giallorosso: «Sto male, ma voglio dare il gioco alla Roma e la gioia ai suoi tifosi». Non ci riuscì. Se n’è andato per consunzione

No esta loco, es un genio, titolava ieri il Marca a tutta pagina. E se fosse entrambe le cose, pazzo e genio? Non sarebbe il primo della storia del calcio. Si fa largo il sospetto, anche presso i diffidenti cronici del mondo madridista, che nella testa dell’asturiano alberghino lanterne magiche oltre che evidenti paranoie. La sua Spagna ha dato spettacolo al debutto. Furiosa sì, ma anche leggiadra. Lucho e la sua banda di marmocchi, tenuti insieme dalle vecchie pellacce che sappiamo, il compasso di Sergio Busquets, la personalità canaglia di Jordi Alba e di Azpilicueta, hanno stappato lo spumante.

Che gli spacchino da calciatore la faccia con una gomitata, che lo caccino da allenatore tra insulti e pernacchie o perda un Europeo ai rigori dopo aver dominato in lungo e in largo. Che gli muoia una figlia di 9 anni, Xana, per un cancro alle ossa. Lui cade, stramazza, ma si rialza sempre e parte per il deserto a pedalare tra le dune e gli scorpioni. Non serba rancori, è amico di Tassotti che gli ha spaccato la faccia, vuole bene alla Roma che lo ha prostrato e ha tifato Italia che lo ha eliminato.

Luis Enrique non ha il carisma autoritario di un José Mourinho, quello maliardo di un Pep Guardiola né quello visceralmente empatico di un Jurgen Klopp, piuttosto quello contagioso di un Francesco d’Assisi, quello che arriva (e predica) dall’incorruttibile innocenza del cuore.

Un calvario il passaggio a Roma. Che nel tempo Lucho ha imparato ad amare, come tutte le cose che lo hanno aiutato a crescere. Un (fragile) marziano a Roma. Ridotto a una larva dal massacro di una piazza che sa essere feroce come poche. «Sto male», disse una volta pubblicamente e si capì che stava male veramente. Aveva detto: «Voglio dare il gioco alla Roma e la gioia ai suoi tifosi». Non ci riuscì. Se n’è andato per consunzione. Invecchiato di dieci anni. E fu solo un anno, un anno di troppo. «Che cosa ho fatto di male per meritare tutta questa merda?» disse. Il più struggente, accorato grido di dolore mai udito prima nei postriboli del calcio.

Si legge su La Gazzetta dello Sport.

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