La lunga intervista dell’ex presidente giallorosso
Più che un’intervista è un instant book. Nove anni di Roma riassunti in una ventina di fogli A4, James Pallotta lascia il suo testamento giallorosso a The Athletic. Nove anni di gestione, una valanga di milioni investiti come mai nessuna proprietà ha fatto nella storia del club, 80 dei quali destinati al progetto di uno stadio che non vedrà mai la luce. Adesso Pallotta si guarda indietro e racconta perché è dovuto scappare da quella sorta di inferno che era diventata per lui la Roma: “Sono arrivato a punto in cui pensavo: ‘perché sto spendendo il mio tempo per andare laggiù e stare pochi giorni?’. Quando rifletto sugli anni che ho passato come presidente prima di vendere il club, mi rendo conto che quasi il 15% della mia vita è associato alla Roma. Adesso, mentre ripenso al mio tempo trascorso alla guida del club e interagisco con i tifosi su Twitter, la mia unica frustrazione è che alcune persone non si rendono conto di quanto amassi la Roma“. Sullo stadio: «Faceva molto male non poter avere uno stadio nuovo, era necessario costruirlo per poter restare stabilmente tra le prime 10-12 squadre del mondo. Avevamo un sacco di grandi sponsor in attesa, la Coca Cola era uno di questi e sono andato ad Atlanta a parlare con loro. Con alcuni parlavamo dei diritti sul nome dell’impianto ed altri ci avrebbero dato 15-20 milioni l’anno solo per quello. Probabilmente c’erano 100 persone che mi hanno mandato un’email dicendo: “non vedo l’ora che venga costruito lo stadio. Voglio sposarmi lì”. Siamo arrivati al punto in cui abbiamo pensato di metterci un impianto di cremazione o un cimitero per le persone che vogliono che le loro ceneri siano sparse per il campo». Non solo una casa per le partite della Roma, ma un polo di intrattenimento che avrebbe portato, una volta a regime, ricavi da 100 milioni l’anno nelle casse del club. «Sarebbe stata la struttura più utilizzata nell’Europa del Sud. L’Olimpico non va bene per i grandi concerti. Se avessimo costruito il nuovo stadio non avremmo fatto pazzie per i prezzi dei biglietti, ma ci sarebbero stati del palchi privati e avremmo dato la possibilità di poterli utilizzare». Lo scrive Il Tempo.