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Viaggio nell’eterna storia d’amore tra l’AS Roma e la sua gente

(Il Romanista, T. Cagnucci) Commentare il coro di sabato sera, il perché, il per come, quanto ci faccia sentire orgogliosi, diversi, quanto definisca la stessa definizione del tifoso romanista (ostentare con vanto i miei colori proprio quando tu t’aspetti il mio capo chino) non mi va. In giro ho letto cose bellissime su quel coro, bastano. Ma il miracolo non è tanto questa specie di miracolo che accade (una specie di valanga che vedi nascere da una palla di neve che hai tirato, la bellezza del paradosso di un coro che trova un equilibrio impossibile perché cresce eppur si mantiene, in una sensazione di essere in un loop di cui però tu sei assoluto artefice anche se centrifugato), ma che questo miracolo nella nostra storia sia addirittura prassi.Ce ne sono stati tanti dal 1927 di momenti così, forse la costituzione stessa di un’Associazione Sportiva che si chiama Roma è figlia di quel sentire, di quel voler farne parte, dell’entusiasmarsi di vivere una storia tutta nostra e di cui siamo innamorati perché ha il nome, i colori e gli stemmi belli. Allo stadio persino gli odori.

Quindi scusate dimenticanze o ignoranze (sono sicuro che ci siano tanti romanisti pieni di scrigni di ricordi che potrebbero raccontare storie da farci sentire piccoli). Penso alle lettere sul resoconto del campionato della Roma che arrivavano in ritardo al fronte nell’anno del primo Scudetto e che hanno tenuto in vita tante persone, la trasferta dei mille a Genova nel 1950 (treno prenotato per 955 tifosi la sera prima da Termini) con la Roma ultima a 4 punti e il suo capitano, Tommaso Maestrelli, a ricevere nello spogliatoio il capo-tifoso Memmo Montanari per questo giuramento: «Ti giuro Memmo che moriremo per la Roma». La bellezza di vedere Anna Magnani allo stadio con Masetti allenatore nel tentativo impossibile di evitare la serie B.La stessa storia del Sistina che è stata raccontata quasi sempre senza considerare tutto l’amore che gira attorno alla Roma. È un vortice, è una storia circolare, è una litania, è quel Ale Ale Roma alé… che spesso risuona più alto proprio nei momenti più difficili (oggi si deride quel «la Roma non si discute si ama»: comprendo che dirlo tanto per dirlo dia fastidio, e comprendo pure che invece la Roma si possa, persino si debba criticarla – purché la si ami però – ma tanti si dimenticano che chi l’ha coniata quell’espressione, Renato Rascel, aveva appena saputo che la Roma era andata in Serie B: fidatevi non l’ha fatto per un like o per scrivere sulla bacheca «quando vinci sei di tutti, quando perdi sei solo mia»). Sarà che dai diamanti non nasce niente o che «un uomo si definisce da come reagisce a una sconfitta» che non l’ha detto Kant, Faber, Heidegger o Proust, ma Berlino nell’ultima stagione della Casa di Carta; sarà quel che sarà (o che sarà sarà?) ma per la Roma è sempre stato così. Chiedendo scusa ancora per sintesi o dimenticanze ecco alcuni momenti in cui tutti insieme abbiamo cantato il nostro essere romanista come sabato sera: per un momento, un campionato intero, un attimo, per sempre o una sera.

(…)

20 marzo 1985, Roma-Bayern Monaco 1-2
“Que sera sera (whatever will be, will be”) è un brano scritto trent’anni prima di questa partita per il film (remake) di Hitchcock “L’uomo che sapeva troppo”. Quel giorno, un po’ come sabato, invece noi sapevamo solo di essere della Roma. Non sapevamo altro, non volevamo sapere altro. Altro che mai schiavi del risultato, eravamo liberi da tutto. Quel giorno la pioggia ha fatto veramente da basso continuo a quel canto infinito, nato a un certo momento, senza preavviso, senza concertazione, senza dirsi e sapere niente, tranne quel canto «Che sarà sarà ovunque ti sosterrem, ovunque to seguirem, che sarà sarà». C’è chi dice che fu “solo” una reazione di orgoglio ai tedeschi, c’è chi più poeticamente ha visto in quel canto la fine dell’era più bella di sempre: era il ritorno di un quarto di finale di Coppa Coppe, senza Falcao, dopo lo 0-2 dell’andata. Il tecnico dei tedeschi, Udo Lattek disse: «Io sono rimasto sconvolto da quello che è successo oggi all’Olimpico: in tutta la mia carriera non avevo mai visto una squadra perdere sostenuta così dai suoi tifosi». Il centrocampista Soren Lerby disse: «Lo spettacolo di folla più puro e più vero che io abbia mai visto. Mi hanno commosso e invidio i giocatori della Roma per questo». Come Sebino Nela che non disse niente, ma quando segnò il gol del provvisorio 1-1 si mise a piangere, confondendosi tra quello che succedeva tra curva e cielo per tutto il secondo tempo. Quello che iniziava nella nostra vita.

27 aprile 1986, Como–Roma 1-0
C’è un’immagine di quel giorno, un tifoso della Roma che canta sotto la pioggia a Como: «Siamo i tifosi della Roma, siamo del Commando Ultrà, forza Roma alé alé…». Era stata la colonna sonora di quelle che forse ancora oggi sono le 13 partite più entusiasmanti di sempre della Roma. Quella di Eriksson (pensa te), quella che su 26 punti a disposizione, in quelle 13 gare, ne prese 8 alla Juventus che a dicembre si era laureata campione del mondo e in campionato le aveva vinte tutte. Una rincorsa mai vista, di stadio in stadio, vincendo a Milano col Milan, a Torino col Toro, battendo 3-1 più due rigori sbagliati l’Inter con una squadra piena di ragazzini, vincendo 3-0 e per sempre sulla Juventus con uno stadio colorato per la prima volta nella storia degli stadi tutto dai ragazzi del Commando Ultrà. («Siamo i tifosi della Roma, siamo del Commando Ultrà…»). Battendo la Samp in 10 contro 11, mentre la Juve perdeva a Firenze, ribaltando l’1-2 col Pisa in un 4-2 quando l’Arena Garibaldi sembrava Testaccio nel 1931: avevamo preso la Juve, cantando quella canzone, riempiendo non solo gli stadi, ma ogni giorno di quella rincorsa tricolore. Era il periodo in cui ti commuovevi per la pubblicità della Barilla in televisione. Poi Roma-Lecce e l’assurdo di tutto. Roma-Lecce e la fine di quello che non era più un sogno, ma un tricolore solo da prendere. Ecco, Como-Roma arriva 7 giorni dopo Roma-Lecce: io sinceramente penso che chi è stato a Como quell’anno debba venire considerato come un Cavaliere della Roma. Di quelli veri. Perché non c’era nemmeno più un briciolo di speranza (la Juve avrebbe giocato proprio con il Lecce ultimo e già stra-retrocesso), che aveva già fatto l’impresa delle imprese con noi, noi che dopo quella botta non eravamo vuoti, ma di più: trapassati dal nulla (c’è ancora gente incredula dalle parti dello stadio), eppure la curva del Senigaglia, e non solo quella, era piena dei tifosi della Roma. E quell’immagine poi mostrata alla Domenica Sportiva di un tifoso della Roma che sotto la pioggia cantava a squarciagola. «Una presenza che vale più di uno Scudetto», scrissero. Vero. «La nostra fede non conosce sconfitta» su un altro striscione. Verissimo. Stiamo parlando di questo. «Per la sola ragione del viaggio viaggiare…»: per la sola ragione della Roma amare.

Roma-Liverpool 1-1 (3-5 dcr), 30 maggio 1984
Questa a parte senza cronologia. È solo un inciso. Solo un urlo. Di questa partita è stato scritto e rappresentato tantissimo e sarà sempre nulla. I “55 secondi” non sono solo quelli che passano fra il rigore di Di Bartolomei e l’altro del Liverpool in cui la Roma è campione d’Europa, ma sono quelli – contati al cronometro, più di una volta – passati dal rigore di Kennedy che fa il Liverpool campione d’Europa al canto che a un certo punto si alza in quella notte: «Roma! Roma! Roma!». Sarebbe stato più logico spuntasse davvero un sole. Persino Pizzul in diretta Rai rimase sorpreso. Avevamo perso tutto, tutto. Davanti ai nostri occhi. Sotto le nostre mani. A 11 metri dal cuore, a casa nostra, la coppa più bella e importante, la partita delle partite giocata a casa nostra con la maglietta bianca luce, la Roma stava uscendo dal campo, gli inglesi festeggiavano e dalla Sud dopo 55 secondi di silenzio un canto. «Roma Roma Roma». Per cosa cantavamo? Per chi cantavamo? Non lo so, ma cantavamo per la Roma.

Il pezzo completo su Il Romanista (Tonino Cagnucci)

 

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