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Mancini: “Servono sacrifici per arrivare ad alti livelli. Che emozione l’esordio da titolare nel derby” (VIDEO)

Le parole del centrale giallorosso

Gianluca Mancini, difensore della Roma, ha rilasciato una lunga intervista al canale Youtube del club giallorosso:

Ogni bambino che gioca a pallone porta con sé un sogno: brillare sui campi da calcio. Però pochi sanno veramente la fatica che comporta realizzare questo sogno. Gianluca, ti va di raccontarci un po’ della tua storia? Come sei stato scoperto?
“Ho iniziato nella squadra del mio paese, all’età di 7 anni. Un po’ tardi perché mio padre non voleva farmi iniziare, diceva che ero sempre piccolo. Un allenatore della squadra del paese mi vide a una festa e, conoscendo i miei genitori, li invitò a portarmi al centro sportivo della squadra. Ho fatto due anni lì con gli amici di scuola e del campetto dove siamo cresciuti e dopo due anni un visionatore della Fiorentina del mio paese mi ha visto giocare e mi ha portato a Firenze. Ho fatto tutta la trafila del settore giovanile alla Fiorentina, poi dopo aver finito il settore giovanile ho iniziato a Perugia, due anni ho fatto, due anni a Bergamo dopo Perugia e adesso qua. Sono sacrifici, togli tante cose, devi rinunciare a tante cose, però se dentro di te se hai un obiettivo ben preciso e lo vuoi raggiungere, con costanza, allenamento e voglia di arrivare si può fare.

Appunto per questo pochi sono i ragazzi che riescono a raggiungere livelli così alti nel calcio. Per via dei sacrifici si bruciano tante tappe della gioventù perché si diventa subito adulti, all’improvviso, con tante responsabilità. Ma tu hai avuto sin dall’inizio il sostegno della tua famiglia e la comprensione dei tuoi amici?
“Sì, la famiglia è una parte molto importante per ogni calciatore che arriva a giocare a livelli importanti. I miei genitori almeno non sono mai stati due genitori che dicevano per forza ‘devi diventare un calciatore’. Mi hanno fatto sempre passare la cosa come un divertimento, io mi sono sempre divertito, tranne quando sono arrivato tra i professionisti perché diventa un lavoro. Gli amici e la famiglia sono importanti per ognuno di noi e devi avere le giuste amicizie e una famiglia importante alle spalle”.

Come ci hai appena raccontato, la vita di un calciatore è un continuo viaggiare, trasferirsi. Sei passato da Perugia, Atalanta, Roma. La vita del calciatore si racchiude proprio dentro una valigia. Voi riuscite a creare comunque dei legami?
“Io ho pensiero un po’ strano nel mondo del calcio perché i legami si creano, però è difficile che durano nel tempo. Io ho la fortuna di aver legato qualche legame”.

Leonardo Spinazzola ti dice qualcosa?
“Bravissima. Sì, Leo per me è stata un’amicizia che anche se non avessi giocato a calcio, anche se l’avessi conosciuto fuori, sarei stato suo amico. Quando con due persone ti conosci e ti prendi subito lo vedi, quindi è difficile. Però, diciamo, conoscere nuovo persone, anche nuove tipologie di testa, di ragionamento ti fa aprire un nuovo mondo. io che vengo da un paese molto piccolo mi ha fatto crescere in modo molto veloce, ero un ragazzino, ora non è che sono tutto questo uomo, però sono cresciuto molto in fretta”.

Ma quando ritorni nel tuo paesino, ora che sei un calciatore professionista, qualcosa è cambiato? Ti trattano diversamente o tutto è rimasto come prima?
“No, assolutamente. Io non voglio essere trattato diversamente. I miei amici mi trattano come Gianluca: lo ero prima e lo sono anche ora. Di calcio non parliamo mai. Parliamo di quello che faccio a Roma, mi chiedono di mia figlia, di mia moglie. Parliamo di cose quotidiane: io chiedo a loro come va il lavoro e non c’è differenza rispetto a 10 anni fa”.

Avere un partner, come nel tuo caso che sei sposato, aiuta in questo continuo cambiare di città a sentirsi a casa, a sentire che quel luogo ti appartiene?
“Assolutamente sì. Il primo anno a Perugia sono andato da solo perché mia moglie lavorava e quindi era rimasta nel nostro paese. Lei lavorava e io ero solo a Perugia, a 19 anni. I primi mesi sono stati difficili perché avevo lasciato mia moglie, che era la mia fidanzata, la vedevo un giorno, la domenica, i miei amici non li vedevo più. Ero abituato a stare in famiglia con mamma, papà e mia sorella sempre in casa e mi sono ritrovato in una casa da solo, ho passato momenti un po’ difficili. Avere mia moglie accanto, è una donna eccezionale, mi aiuta in tutto e mi sopporta veramente in tutto. Io dico che è il mio sacco da boxe, io mi sfogo tanto con lei e lei riesce sempre a capirmi ogni volta. E dopo una chiacchierata con lei mi calmo ed è tutto diverso”.

Di recente avete vissuto un momento davvero molto delicato per via della nascita prematura della vostra bambina e tua moglie ha colto l’occasione per ringraziare sui social tutto la staff medico ma soprattutto ha ringraziato te che nonostante gli impegni lavorativi sei stato sempre presente a tenerle la mano. Ti va di raccontare come avete superato questo problema?
“Mia moglie ha fatto una gravidanza perfetta. La bambina ha deciso di voler uscire prima, cominciando a scalciare. Sono stati momenti un po’ difficili perché siamo giovani, è la prima esperienza di una figlia ed è successo tutto moto velocemente. Eravamo una sera a casa e mia moglie mi ha detto ‘dobbiamo andare all’ospedale’. Il giorno dopo giocavamo con il Parma o l’Hellas Verona, non mi ricordo. Siamo stati quattro ore e mezza in ospedale, sono tornato a casa alle 5:30 la mattina, alle 8 avevo la sveglia per andare al campo. Sono stati momenti difficili perché in quattro giorni è nata mia figlia. Mia moglie ha fatto il parto cesareo e ho visto mia figlia uscire dalla pancia di mia moglie. Quindi me l’hanno fatta vedere, poi me l’hanno portata via, ce l’hanno portata via dalle nostre mani. Di solito siamo abituati, o abbiamo sentito esperienze, dove nasce il figlio e lo mettono in braccio alla mamma. L’ho vista dopo un’ora mia figlia in un’incubatrice ed è stato un po’ pesante vederla lì. Per fortuna però siamo stati in un ospedale, al San Pietro, veramente eccellente dove ci sono infermieri che non sono infermieri, sono angeli, perché ti spronano, ti aiutano e ti danno sempre la forza di andare avanti. Mia figlia per fortuna è sempre stata stabile, non ha mai avuto problemi. Era tutto strano e le parole di mia moglie mi hanno fatto tanto piacere e mi hanno fatto emozionare perché lei non è una che si espone, ha un carattere come me, teniamo le nostre cose, soprattutto di famiglia, riservate. Le teniamo per noi, le sue parole mi hanno emozionato. Io ho cercato di fare il marito, dandole una mano, però dovevo fare anche il professionista perché c’erano delle partite di campionato da fare. Poi lì c’erano anche altri bambini e vedevo altri genitori, magari meno fortunato di me, perché c’erano alcuni padri che lavoravano dalle 8 di mattina alle 8 di sera e magari per 4-5 giorni non vedevano i loro figli. Però loro lavoravano e io mi son detto ‘perché non devo andare a giocare o allenarmi?’. Dovevo fare il mio lavoro, fatto bene. Ed era anche un modo per staccare un po’ di testa perché dopo un po’ di giorni diventava pesante fare casa, ospedale, Trigoria, ospedale, casa. Andando a Trigoria e stando con i miei compagni, che mi hanno supportato chiedendomi tutti i giorni come stava, mi faceva stare meglio di testa, staccare un po’, e pensare solo al calcio”.

Durante le partite porti con te qualcosa di speciale, di significativo? Una sorta di talismano?
“Ho nello zaino un bigliettino fatto da mia moglie il primo anno all’Atalanta, dove anche lì c’era stato un periodo no. Era il mio primo anno in Serie A, non giocavo e mia moglie, prima di una gara con la Nazionale Under 21, mi fece un bigliettino e me lo fece trovare nello zaino. Arrivato in Nazionale, tirate fuori le cose, vidi questo bigliettino e fu un gesto molto carino da parte sua. Ed è rimasto lì. Perché da quel bigliettino sono successe cose positivi ed è rimasto un mio amuleto.

Il tuo debutto nella Roma è stato davvero molto speciale: la tua prima partita da titolare è stato proprio un derby.
“Un’emozione stupenda. Il derby l’ho sempre visto come una partita stupenda dalla televisione, molto caloroso e sentito. Mi chiedevo sempre ‘quando giocherò un derby?’ e c’è stata la possibilità, il mister mi schierò titolare. Mi ricordo dopo la partita, emozione a mille, anche se pareggiammo. Però da parte mia è stata una partita molto emozionante”.

Che mi dici di Giuseppe Riso?
“Come ha detto lui, è vero. Io venivo da un’esperienza lavorativa con un’altra persona, con cui ho iniziato un percorso da quando ero piccolo. Ci fu la telefonata di un ragazzo che aveva giocato con me nella Fiorentina che mi diceva che Beppe voleva conoscermi e scambiare due chiacchiere e io nel mondo del pallone non l’ho mai negato a nessuno. Sapevo chi era lui e come lavorava perché magari aveva altri ragazzi che conoscevo. Ci siamo incontrati a Bergamo in un bar: mi sembrava una persona che conoscevo da tanti anni. Io lo chiamo leone, perché è un leone. Lui cerca sempre di farci stare tranquilli. Mi risponde sempre. Avere una persona che ti stima, che ascolta le tue esigenze, che si confronta con te, parla di tutto e di più per me è importante. Il procuratore non deve fare solo i contratti, sentirci solo se ci sono delle squadre o fare delle cose e basta. A me non piace così. Sono una persona abbastanza chiusa, ma i rapporti umani per me sono importanti e se vedo una persona che ragiona come me, io mi taglio un braccio perché vedo in questa persona che ha fiducia e farebbe lo stesso per me”.

Dai campi infangati e polverosi di Pontedera agli azzurri e alla Roma. C’è rimasto ancora qualche sogno nel cassetto?
“Il cassetto non è ancora chiuso. Ho 24 anni e ho ancora un mondo da imparare e delle cose nuove da scoprire, a livello sia umano che calcistico. Il mio sogno nel cassetto l’ho realizzato, ma quel cassetto è sempre aperto perché deve durare ancora e per migliorarmi, arrivare un giorno ad essere un bravo calciatore, un bravo papà e un bravo marito e dove tutte le persone che guardano il calcio ricorderanno Gianluca Mancini come una brava persona che si è sempre comportata bene in questo mondo. Forza Roma! Ciao”.

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